Disubbidire. Riflessione sulla disubbidienza come metodo
Come si disubbidisce a ciò che ti imprigiona ma ti tiene al caldo al sicuro?
Io nella mia vita ho disubbidito a tutto e tutti. E non per eroismo o superbia, ma per sopravvivenza, altrimenti sarei morta.
Scomparsa tra le pieghe del mio dolore, che nel mio caso è sempre stato racchiuso nel mio corpo.
Sono un corpo disubbidiente, violato, ferito, costretto alla punizione, alla colpa e soprattutto costretto alla rinascita. Ho disubbidito pure al mio desiderio di morte, di fermo immagine, di silenzio, di inerzia.
Ho disubbidito talmente tanto a tutto quello che era conforme, da vagare disorientata tra un piacere e l’altro, tra uno stato di ebrezza di libertà e l’altro, che ho sprecato tutta l’energia possibile per essere una donna libera e non appartenere a nessuno, spesso neanche a me stessa.
Ho disubbidito alla mia mente, taciuto tutte le domande, al di là di una coscienza urlante che si sfiora, ma non si tocca. Ho disubbidito pure ai mei occhi, creando visioni diverse.
Come canta Nada in O Madre, io sono sempre stata una ragazza poco attenta, aperta a tutto, mi sono sfondata. E ho provato tutto, tutto, tutto. Mi son ritrovata sola in mezzo al mondo, mentre tante cose mi saltavano intorno.
Anch’io (come la canzone di Nada) ho implorato:
“Madre fammi posto tra le tue gambe
Piego la mia testa, il buio è grande
Fondo, profondo, dentro fino in fondo
Più in fondo, più in fondo, più in fondo ancora in fondo
Scava, pigia, dai, dai, pigia
Scava di più finché non ci sono più
Finché non ci sono più, finché non mi trovo più
È lì che sono io, è lì che sono vera
È lì che c’è qualcosa che somiglia a una preghiera
È lì che c′è un respiro, è lì che c’è qualcosa
Che dà una ragione a questo andare senza posa
O madre, o madre, madre mia”
Solo che la madre a cui imploravo rinascita ero io, così che potessi da sola partorirmi dopo ogni suicidio, abbandono, dolore, felicità, ennesimo passo più lungo della gamba, tipo quelli che ti fanno inciampare a terra e ti spaccano il ginocchio, ti tolgono il fiato e per un po’ ti rimettono seduta, nella gabbia dorata al caldo.
Che cosa vuol dire disubbidire alle aspettative (proprie e altrui)? E poi come si contiene l’oblio?
Io ho disubbidito a tutto. Ma non ho mai trovato la pace interiore. L’ho trovata per un’ora, un giorno, il tempo di un orgasmo. E poi ho disubbidito anche a quello che la mia cultura e mio sapere mi hanno insegnato. Le persone, i contesti, le sinergie, non ci appartengono. Anche le persone (mi sono sempre detta) non ci appartengono perché sono flussi, passaggi, odori, sapori, pensieri, adrenalina, grazia, bellezza e/o bruttura. Ma poi vanno via, perché i flussi, per loro natura, appunto fluiscono anche altrove. Io lo so, ma disubbidisco anche al mio sapere e ogni volta vorrei avere la certezza di poter mettere dentro me quella persona o quella situazione (proprio come canta Nada) tra le mie gambe piegandogli la testa, spingendolo in fondo, nel mio profondo, dentro fino in fondo, scavando pigiando, finché non c’è più, finché non ritrovo più la bellezza e grazia, di chi ho voluto trattenere a tutti i costi.
Allora oggi, per quello che mi riguarda, ho la consapevolezza che disubbidire alla morale, non ti eleva per forza. Ti porta solo in viaggio, tra una stazione di disubbidienza e l’altra, finché non inizi a disubbidire pure al tuo credo, alle tue convinzioni, al tuo benessere. E inizi a mediare, tra una disubbidienza eroica, una politica, un’amorosa e finisci per disubbidire pure al tuo “io sono oltre”, perché sei andata talmente tanto oltre, che disubbidire è diventata una parte di te un automatismo, che affascina addirittura chi ti si avvicina per disubbidire insieme, ma che poi allontana, perché la verità è che anche la disubbidienza richiede metodo, fatica, verità e presa di posizione.
Perché la scoperta è, che quando la disubbidienza alla morale diventa un credo, un atto di autocoscienza per intenderci, dopo la prima brezza di sollievo, per renderla attiva e non passiva, bisogna scriverne le regole. La disubbidienza è pur sempre pratica.